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Responsabilità medica: natura contrattuale o extracontrattuale?

Gen 25, 2021 | News

La pandemia che oramai da più di un anno imperversa nel mondo, oltre a condizionare le nostre vite, mette in luce tematiche la cui importanza diventa dirimente tenuto conto dell’impatto che il COVID-19 ha sul sistema sanitario e sugli operatori che ivi operano.

Diventa ancor più pregnante, pertanto, per gli addetti ai lavori, il dovere di conoscere quali sono le tutele che l’ordinamento appresta nel caso di episodi di malpractice medica, prima in via generale, e poi nei casi specifici in cui la struttura sanitaria e/o l’operatore sia responsabile per un trattamento terapeutico effettuato in costanza di COVID-19.

In particolare, è necessario innanzitutto analizzare la disciplina inerente alla responsabilità medica e come tale disciplina si è evoluta nel corso degli anni, anche tenendo conto degli interventi normativi che, più volte, ne hanno modificato la portata e la rilevanza.

 

Come accennato, la giurisprudenza e la dottrina, nell’ambito della responsabilità medica, hanno dato vita ad un acceso dibattito che ha comportato l’avvicendarsi di orientamenti diversi intorno alla natura della responsabilità del medico nei confronti del paziente.

In un primo momento, nella scia di una lettura costituzionalmente orientata delle regole e dei principi in materia di diritto alla salute, giurisprudenza e dottrina tendevano ad assicurare una certa immunità al medico.

Immunità che si è via via attenuata, come risultato di una diversa interpretazione dell’art. 2236 c.c..

Tale norma, rubricata “Responsabilità del prestatore d’opera” prevede che: “Se la situazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Inizialmente richiamata per limitare la responsabilità del medico, successivamente la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6141 del 21 dicembre 1978) l’ha ritenuta non applicabile ad ogni intervento qualificabile come complesso, ma solo agli interventi di particolare complessità o quegli interventi non ancora sperimentati o studiati a sufficienza.

A questa prima fase interpretativa, caratterizzata da una situazione di maggiore tutela del medico, seguiva una fase in cui avveniva una modifica della qualificazione della responsabilità medica, da extracontrattuale a contrattuale.

Tale capovolgimento aveva delle rilevanti ripercussioni sul piano probatorio: nel caso di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., infatti, è il paziente che lamenta il danno a dover provare l’esistenza, l’entità e la riconducibilità dello stesso alla colpa o al dolo del medico, con un termine di prescrizione di 5 anni.

Nel caso in cui, invece, si ritenesse la responsabilità del medico come responsabilità contrattuale sarà onere del paziente danneggiato: a) provare il contratto o il contatto sociale con la struttura sanitaria, pubblica o privata, e/o con il medico; b) provare il danno patito, quale aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie; c) allegare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del medico, per aver posto in essere una condotta imperita o negligente; d) provare che sussiste un nesso causale tra il danno patito e l’inadempimento del medico, allegando il solo inadempimento del sanitario. Il termine di prescrizione, in questo caso, è di 10 anni.

Giurisprudenza e dottrina giungevano a tale ultima qualificazione in considerazione del fatto che “nel quadro del rapporto privatistico tra ente gestore e paziente, il privato, entrato in contatto con l’ente, che manifesta la disponibilità al servizio, acquisisce un vero e proprio diritto soggettivo, cui corrispondono l’obbligo e la relativa responsabilità dell’ente stesso, nonché, ai sensi dell’art. 28 Cost., dei suoi dipendenti” (Cass. n. 12233 del 2 dicembre 1998).

Tuttavia, per comprendere ancora meglio le basi su cui poggiava la qualificazione della responsabilità medica come responsabilità contrattuale, è necessario fare riferimento alla cd. responsabilità da contatto sociale.

Secondo tale teoria, tra il medico e il paziente si instaura un “contatto sociale”, che, nonostante l’assenza di un contratto, è fonte di specifici obblighi di cura, la cui violazione genera responsabilità contrattuale.

La giurisprudenza di legittimità, così, ha specificato che “le obbligazioni possono sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell’ambito dell’art. 2043 c.c., l’ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale” (Cass. n. 589 del 22 gennaio 2009).

La base normativa di tale responsabilità è da rinvenirsi nella clausola generale della buona fede, e precisamente nell’art. 1173 c.c., rubricato “Comportamento secondo correttezza”. Il contatto sociale, pertanto, può essere assimilato ad un “contatto senza contratto”, consistendo in una relazione giuridica da cui derivano specifici obblighi di protezione.

A ben vedere, infatti, il medico e il paziente non sono estranei, intercorrendo tra di essi un rapporto quanto meno di mero fatto, instaurandosi tra gli stessi una relazione giuridica intrisa di obblighi di protezione, stante l’affidamento posto dal paziente nelle cure del medico.

Il contatto sociale tra medico e paziente, quindi, è fonte di un rapporto che, quanto al contenuto, non ha ad oggetto soltanto la protezione del paziente, bensì una prestazione coincidente con quella del contratto d’opera professionale, che comprende obblighi di comportamento di varia natura, diretti a tutelare gli interessi emersi in occasione del contatto.

La tenuta dell’interpretazione giurisprudenziale richiamata, tuttavia, ha iniziato a vacillare con l’introduzione della cd. Legge Balduzzi (Legge n. 189 dell’8 novembre 2012, di conversione del D.L. n. 158 del 13 settembre 2012).

La qualificazione della responsabilità medica come responsabilità contrattuale ha comportato, sul piano pratico, l’aumento dei casi in cui è stato possibile ravvisare una responsabilità del medico e una maggiore esposizione della categoria professionale alle azioni giudiziarie per il risarcimento del danno.

Al fine, quindi, di arginare e limitare le ipotesi di responsabilità medica, l’art. 3 della Legge Balduzzi, al comma primo, ha previsto che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del Codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma”, riqualificando, quindi, la responsabilità del medico come responsabilità extracontrattuale, con tutte le conseguenze in ordine al riparto dell’onere probatorio in sede giudiziale.

Un chiarimento definitivo sulla natura della responsabilità medica è avvenuto con la novella legislativa del 2017 (cd. Legge Gelli – Bianco), la quale ha stabilito che il medico risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Obiettivo primario della Legge n. 24 dell’8 marzo 2017 è stato quello di creare un sistema in cui siano contenuti i rischi sanitari, tramite un costante monitoraggio dell’operato delle strutture sanitarie, pubbliche e private.

L’art. 7 della Legge Gelli – Bianco, in particolare, ha stabilito che “l’esercente la professione sanitaria … anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti dalla struttura stessa … in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione don il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina … risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”.

Dalla novella è derivato, pertanto, un nuovo regime di responsabilità: da un lato, la responsabilità contrattuale per la struttura sanitaria; dall’altro, la responsabilità extracontrattuale per l’esercente la professione sanitaria, indipendentemente dal titolo in cui questi opera all’interno della struttura, e sempre che non abbia assunto con il paziente un’obbligazione contrattuale.

È evidente, quindi, l’intenzione del Legislatore del 2017 di superare la teoria del “contatto sociale” nel caso di responsabilità sanitaria e distinguere i tipi di responsabilità dei soggetti potenzialmente corresponsabili del danno derivante dall’esercizio dell’attività sanitaria, anche al fine di arginare il proliferare delle pretese risarcitorie rivolte alla categoria professionale.

In merito all’onere della prova, l’inquadramento della responsabilità del medico nella responsabilità extracontrattuale comporta l’onere per il danneggiato di provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità con la condotta del medico e la colpa o il dolo dell’agente, con un indubbio vanataggio per la categoria professionale.

Tale qualificazione potrebbe scontrarsi con un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, secondo il quale l’onere della prova deve essere ripartito tenendo conto della possibilità per le parti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione, nel caso del medico, quindi, sul soggetto tecnicamente più esperto nel rapporto di cura, vanificando, quindi, gli obiettivi perseguiti dalla novella del 2017.

 

Responsabilità del medico e Covid-19

L’impianto normativo delineato dalla Legge Gelli – Bianco, tuttavia, deve necessariamente tener conto dell’emergenza epidemiologica di COVID-19 in atto, che ha costretto i sanitari ad un crescente impegno (e pressione) nella propria attività lavorativa, con un inevitabile aggravamento delle responsabilità.

Un aspetto di particolare rilievo, con riferimento all’epidemia, è rappresentato dalla novità della patologia, dalla sua scarsa conoscenza e dall’assenza di un protocollo terapeutico e farmaceutico, che dovrebbero portare ad un’esclusione o, quantomeno, ad una attenuazione della responsabilità del medico.

In tale contesto non può, pertanto, prescindersi dall’applicazione dell’art. 2236 cod. civ., tenuto conto che le prestazioni sanitarie vengono erogate in un momento di emergenza e mirano a risolvere situazioni di particolare difficoltà e complessità.

Ferma restando, quindi, la qualificazione della responsabilità del medico come responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 7 della Legge Gelli – Bianco, la stessa non può che ritenersi limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave. La stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato, con una sentenza che può applicarsi al tema della responsabilità medica in costanza di COVID-19, che “la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave qualora l’esecuzione della prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, nozione che ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza” (Cass. n. 16275 del 31 luglio 2015).

Ne consegue, quindi, che il sanitario andrà esente da responsabilità soltanto nel caso in cui la sua condotta imperita sia giustificata dall’assenza di linee guida/buone pratiche in grado di orientare il trattamento terapeutico. Non invece qualora il medico abbia causato un danno per inosservanza delle legis artis note, ovvero abbia tenuto una condotta negligente o imprudente.

A cura di

Cosimo Altavilla

Laureato presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Svolge attività di difensore nell’ambito del processo civile, fornendo consulenza ed assistenza nei settori del diritto di famiglia e minorile, contrattuale, nonché nell’ambito della responsabilità professionale in ambito sanitario. È autore di articoli pubblicati su riviste scientifiche online: – Il procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. in Rivista giuridica online “giuricivile.it”; – Responsabilità dei padroni e committenti ex art. 2049 c.c.: può essere responsabile la banca?, in Rivista giuridica online “giuricivile.it”; – Accertamento tecnico preventivo e caratteri della relazione del consulente, in Rivista giuridica online “giuricivile.it”; – La responsabilità da prospetto e gli obblighi informativi nei mercati finanziari, in Rivista giuridica online “giuricivile.it”; – Negoziazione assistita: guida completa di giurisprudenza, in rivista giuridica online “giuricivile.it”. In ambito privacy, si occupa di tutte le attività inerenti alla difesa e tutela dei diritti dell’interessato innanzi al Garante Privacy e nelle successive ed eventuali fasi del giudizio.
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